Ieri si è inaugurato nel Museo Civico Archeologico a Palazzo Brancaleoni di Fara Sabina il nuovo allestimento, progettato dall’ing.Pietro Lupi, dello splendido Carro del Principe.
Fu scoperto con il corredo della tomba XI della necropoli di Colle del Forno di Eretum, scavata nel secolo scorso nelle vicinanze di Monte Libretti. La piccola sala del Museo, diretto dalla dott.ssa Alessandra Petra, che gli è ora definitivamente destinata, dopo un’esaustiva presentazione dell’importante reperto, ha accolto a piccoli gruppi un pubblico vastissimo degno di un evento di massa. Alla presentazione hanno parlato i consulenti scientifici Paola Santoro, Adriana Emiliozzi ed Enrico Benelli, il Soprintendente arch. Lisa Lambusier, il Funzionario archeologo dott.ssa Francesca Licordari, moderati dal presentatore giornalista di Canale 5 Paolo Di Lorenzo.
Recuperato nel 2016 dai Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale, l’insieme, già esposto nella NY Carlsberg Glyptotek di Copenaghen, è stato ricomposto al Museo di Fara Sabina. Tra i numerosi e splendidi pezzi dalla città di Eretum adesso vi si conserva, quindi, anche un gruppo di 12 lamine in bronzo sbalzato di fattura greca, ma prodotte in Etruria nell’orizzonte cronologico del tardo orientalizzante, fabbricate da abilissimi orafi per decorare un calesse da parata destinato ad un principe sabino di una famiglia di grandissima importanza. Parte del corredo trafugato e acquistato dal museo di Copenaghen, nel 1972 fu collazionato da ricercatori del CNR con il materiale successivamente ritrovato in loco, fino a stabilirne con certezza la provenienza dalla stessa tomba.
Nella stessa sala, altrettanto raccolti dagli scavatori clandestini, sono esposti anche i frammenti di tre grandi scudi di lamina di bronzo, che ebbero funzione di arredi da pareti della camera funeraria e non di scudo da guerra vero e proprio, per la sottigliezza delle lamine impiegate, che avrebbe offerto diversamente scarsa resistenza e protezione al guerriero. Il loro esiguo spessore ha indotto in un passato recente restauratori poco accorti a montarle su un supporto di maggior spessore, ma piatto, alterandone la forma originaria, di fabbricazione bombata, che consente di datarli alla seconda metà del VII sec. a. C., come chiarisce la didascalia del museo.
Si dice spesso che l’archeologia non sia una scienza, ma una disciplina brillante non tanto per il rigore, quanto per la smisurata fantasia, che la obbliga, come prova sperimentale di esattezza, a nient’altro che al paragone letterario alle fonti storiche, o meglio a quell’insieme di testi, che sempre più spesso vengono liquidati con la definizione generica di letteratura artistica, un prodotto romanzesco, dimenticando anche la portata di verità e di comunicazione che è propria della poesia. Non è possibile essere sempre d’accordo con questa opinione, perché non ci sono altrimenti scienze più fantasiose della matematica e della fisica, o più empiriche come la medicina, propriamente invenzioni di interi mondi costruiti con simboli numerici, con i quali si nominano le osservazioni più complesse in natura secondo la logica di uno o più metodi.
Poiché l’arte ha la concretezza dei materiali di cui è fatta a disposizione, non è dubitabile che la descrizione di materiali e delle condizioni fisiche subite sia tra le più complesse osservazioni scientifiche che l’universo della precisione possa tangibilmente percepire e catalogare: la loro bellezza, nella storia rocambolesca di questo ritrovamento e insieme per la complessa identificazione del recupero è tale, da non poter passare inosservata e non raccogliere, come ha fatto, una tale orgogliosa, recettiva e scoperta sensibilità di pubblico. Al punto che, se non fosse stato per l’estremo rigore scientifico degli scienziati archeologi che hanno speso per loro la propria esistenza, nessuno che avesse visto questi reperti frammentari avrebbe rinunciato a sognare e immaginare che un simile veicolo e le lamine dello scudo tra loro saldate da uno straordinario fonditore, assottigliate da processi di ossidazione millenaria nella tomba, fossero state concepite a strati per la complessità dell’incisione decorativa, che sarebbe più difficile su uno spessore maggiore di un solo scudo di bronzo.
Chissà che non fossero state forgiate per lo scudo che la stessa Rea Silvia credette del dio Marte quando generò i gemelli Romolo e Remo. L’estrema semplicità delle incisioni dei fregi delle lamine, uguali fra loro, tradiscono una tecnica di origine greca fatta propria dal prodigioso fabbro sabino nello stesso millennio. Quelle del carro, in cui sono sbalzati cavalli, tori e grifi alati, ma anche antilopi fanno propria l’iconografia di una fauna africana. A meno che il veloce calesse non fosse importato in Italia da un greco o, meglio ancora, col beneficio delle fonti e l’insegnamento storico della più grande di tutte, Virgilio, da un troiano che, da principe qual era, fuggendo da Cartagine si fosse addentrato nel territorio laziale vicino al Tevere, dove non è del tutto improbabile vivessero le antilopi. Il presupposto dell’apoteosi di Enea in cielo nel millennio precedente esclude che in quest’area geografica potesse esserci la sua tomba. Non che potesse esserci quella di Clauso, o non piuttosto un suo discendente, invece, che combattè e vinse contro i troiani, il cui valore era stato altrettanto esaltato da Virgilio o di Mezio Curzio, il cui coraggio invece aveva avuto contraddittorie allusioni in Tito Livio.
Se è possibile oggi narrare una commovente favola europea come quella delle circostanze del ritrovamento del prezioso reperto, molto è dovuto al rigore razionale degli archeologi che li hanno identificati e collazionati in capo al mondo, ben sapendo quanto pochi possano essere i criteri di classificazione deducibili dalle suppellettili dell’arte sabina e dai motivi decorativi dell’arte etrusca anche conservata nel museo, compresa la splendida anfora cosiddetta della Sfinge barbuta, che lo stesso predatore della tomba aveva associato al gruppo di reperti del carro. Il dio-serpente raffigurato sulla lamina del carro, una specie di grifone alato rappresentava un potere oracolare, certo dissimile dal dio Hermes Toth, ma che non ha escluso che esso stesso, ancora fin qui meno noto, fosse venerabile oggetto di culto per i Sabini di Cures, che, provenendo nel Lazio attraverso gli Appennini, dovevano essere compenetrati di cultura greca orientalizzante e di cultura mediterranea a loro volta. Se poi fosse stato davvero sepolto con il giovane principe morto in battaglia dopo esser stato consacrato al dio Marte e devoto ad un animale totemico tra quelli adorati da un popolo dedito alla pastorizia e alla transumanza, o fosse appartenuto ad una principessa sabina rapita da uno sposo romano, resta sempre una fatale, condivisibile leggenda.
La scienza dell’archeologia racconta, con gli interessanti mezzi narrativi che le sono propri, che è stato ritrovato in una tomba a tumulo, oggetto votivo di un prezioso corredo funerario - diversamente da quanto avvenuto per il non meno importante Carro etrusco di Monteleone nel 1902, venduto l’anno seguente la sua scoperta al Metropolitan Museum di New York e mai più ritornato – e che ieri ha fatto notizia, non per essere ritornato alla storia delle sue origini, ma per essere il solo accessibile com’è a tutti, a pochi passi da Roma, con una semplice scampagnata fuori porta.