La fonte d’Ippocrène di Piero di Cosimo

Piero di_Cosimo 

Nel Piero di Cosimo alla National Gallery di Ottawa noto come ‘Vulcano ed Eolo’ l’arte di Vulcano dell’età eroica è dipinta tra case in muratura e una varietà subtropicale di fauna sul terreno incolto. Nella definizione di Erwin Panofsky di rappresentazione seriale dell’età del ferro o ‘era sub Vulcano’, in rapporto iconologico al riquadro gemello di Hartford, erano coinvolte le prospettive di vario taglio, dislocate tra i musei di New York, Oxford, Berlino, Londra, Worcester e Cambridge Massachusetts, in cui un sinistro monte di Abila o Calpe determina l’orizzonte dalle oltrepassate colonne d’Ercole.
Sullo scenario delle Nozze di Piritoo ed Ippodamia di Londra, una centauromachia, erano contemplati gli episodi di Ercole e Omado, di Ercole e Nesso, di Astilo e Nesso, della giara di Folo, dell’ara dell’idra di Lerna, di Ercole e Ino, che vedevano Ercole protagonista con Ilomone e Cillaro. Nella preistoria dell’Hercules victor i due fregi delle cacce del Metropolitan Museum di New York e dell’eruzione vulcanica dell’Ashmolean Museum di Oxford, dove erano enumerate le sue Fatiche con gli episodi della cattura del cinghiale Erimanzio e della cintura d’Ippolita, ai fianchi dell’eroe, fra aborigeni centauri, satiri e Lapiti, era legato senza distinzione un perizoma. Piero di Cosimo vi sfoggiava una dovizia preziosa in materia di ornitologia italica, che va dal picchio rosso alla beccaccia, includendo nel serraglio delle terre emerse l’orso, il leone, la gru, il cervo tra gli idioletti di sfingi stinfaliche del giardino esperide occidentale, con le fiere in fuga sul passaggio della mandria di Gerione nel pascolo delle stalle di Augia, dove custode dei pomi d’oro, magnetiche pietre precipitate, era un vulcano ovidiano nell’intera sequenza.
Nel riquadro di Ottawa, Vulcano seduto mimetizza con la mano una deformità del piede alla Venere accorsa con Cupido, che sola il casto Piero veste da lar familiaris, a colloquio col dio su un’altura fuori da un capanno febbrile tra una minuzia di dettagli, come il naturalissimo girale d’acanto che lo incornicia nell’angolo in basso a destra. Il riquadro compenetrato dalle due strofe pertinenti nella selva delle Stanze per la giostra, ottave incompiute nel 1478, è illustrato da Poliziano su una delle porte della reggia di Apollo, altrimenti circondata d’acanto (Stanze, I, 119): “Intorno al bel lavor serpeggia acanto…né d’altro si pregiò Vulcan mai tanto, né ‘l vero stesso ha più del ver che questo; e quanto l’arte intra sé non comprende, la mente imaginando chiaro intende.” Nel primo libro (I, 104) Ambrogini chiamerà Etna il vulcano, che è spento nella prospettiva di Ottawa: “Nello estremo, se stesso el divin fabro/ formò felice di si dolce palma,/ ancor dalla fucina irsuto e scabro,/ quasi obliando per lei ogni salma,/ con desire aggiungendo labro a labro,/ come tutta d’amor gl’ardessi l’alma:/ e par vie maggior fuoco acceso in ello,/ che quel ch’avea lasciato in Mongibello.” Che fra gli strumenti dei fabbri delle officine fiorentine fosse appena forgiato il globo che sostiene il sole delle armille dei naviganti, coperto del turbante di Càstore, il copricapo laconio che il pennello di Piero di Cosimo nel quadro di Londra poneva in testa ai centauri esagitati, sembra Vulcano a dirlo, sfuggito nudo e in carne ed ossa al sonno del titano Tifeo sulla terra dei Ciclopi.
Che fossero i Càlibi oltre ad Eolo intenti ai mantici, giunti dalla regione del Mar Caspio, dov’erano a dire di Erodoto armati di un’elmo vichingo, a Vulcania nelle grotte dell’Etna (Calvesi 2013), i primitivi intenti a forgiare il carro di Marte, uno dei quali, forse Polluce, in bilico sul telaio di tronchi senza fondazioni, indossa il turbante scizio, più di quanto non farebbero Ovidio e lo stesso Poliziano, sarebbe Virgilio a precisarlo nel corpo dell’Eneide (VIII, 425), come ad accennare ai Ciclopi Sterope, Bronte e Piràgmone intenti alle incudini ed ai martelli. Portato nei Gemelli il tragitto del sole, il fatto che il giovane Piero di Cosimo dipingesse in fieri una meccanica nella fucina di Vulcano divinamente grandiosa, più che degna di Assurbanipal, è pari nel pannello, all’istrionica estrapolazione omerica dei cavalli di Castore (Iliade, III, 237): del bianco “Terrore” e del bruno “Tema”, del lupo e del tempio scizio, sacro al dio, disquisiranno Vincenzo Cartari e Cesare Ripa. Poliziano avrà avuto un’immaginazione umanistica delle Metamorfosi di Ovidio indissolubile dall’assonanza progenitrice di Vulcano a Tubal (Tubalcain, Mulciber, Efesto) del Genesi vulgato e dell’‘ars mechanica’ nell’impero romano della formella di Andrea Pisano (campanile di S.Maria del Fiore, Opera del duomo di Firenze). Di quale esortazione a Vulcano a far cessare venti si dovrebbe trattare, salpando una nave, non sarebbero determinanti i mantici di Eolo. Dell’extraterritorialità dell’ovidiano “mare Tosco”, trovato da un Nastagio Vespucci il draconico o plutonico itinerario dantesco (Purgatorio, IV, 71-72) all’orizzonte dei Guanci delle Isole Fortunate (Giovanni Boccaccio, De Canaria et insulis reliquis)), è esplicitamente partecipe l’ambigua natura di Cupido, dal quale Poliziano ha fatto dire a Venere: “ch’i pur son tuo, non nato d’adamante [n.d.r.: diamante]”, come anche la graziosa scimmia arrampicata sull’albero della fatica delle cavalle di Diomede nel quadro riportato del Metropolitan. Ancora genovese la vulcanica isola di Lemnos, l’Efestia cui allude il pannello di Hartford, dove Giasone orgiastico atterra nell’aria fiorita di Ipsipile, dei Sinti e dei divini Cabiri di Samotracia, che contendeva Venere a Cipro (Stanze, I, 70). Sudati da Vulcano i “cicilian camini” (Stanze, I, 93), la puntigliosità di Piero di Cosimo della tela di Ottawa ne dipingerà l’officina con la sagoma del colle Albano in lontananza e, dagli antipodi nordafricani, ogni specie animale della zoologia medicea tra le fiere indiane lungo il Mediterraneo, che Poliziano trascurava di elencare: lo struzzo, la gazzella e la giraffa col martin pescatore, la cicogna e il grillastro italici. Il testo a stampa del primo libro di Poliziano, circolò quasi un decennio prima della scoperta dell’America di Cristoforo Colombo del 1492 e delle navigazioni di Amerigo Vespucci, quando Piero enigmaticamente dipinse, omaggio all’idolo di Ercole Musagète, la sorgente di Ippocrène in cui nuota Sirena, alla National Gallery di Washington.
Alla fonte scaturita dal calcio di Pegaso, che nel dire scherzoso di Apuleio balzando per la paura metterà le ali, a trattenere il cavallo scalciante con il capello strappato a Didone, era accorsa Iride, chimerica fama alata dai colori sgargianti. La documentazione del The Illustrated London News del 1933 dello stato della pellicola precedente il restauro del veneto ‘Tramonto’ con il combattimento di S.Giorgio con il drago sullo stagno di Trebisonda, alla National Gallery di Londra dove è stato acquistato nel 1961, ha mostrato una tela lacunosa al punto da lasciare immaginare nella scena votiva di uno ‘Spinario’, un avventuriero scampato al drago nei panni di un gentiluomo inglese di Van Dyck, lo stesso S.Rocco od Enea e Anchise (Daverio 2013). Sarà Tiziano a dipingere il Genesi nel sarcofago dove Cupido attinge l’acqua, l’epinoia in cui sono specularmente contemplati i progenitori Adamo ed Eva, il bacile dell’offerta rovesciato, l’uccisione di Abele, e la pia discendenza di Sem, Cam e Jafet della biblica stirpe di Jabal contendersi il cavallo tra loro: nel divenire delle ‘Quattro stagioni’, l’Amor sacro e profano, la ritrovata stella polare lungo la strada tra le Indie dell’Europa. Agostino Carracci nel soffitto della sala degli Argonauti del Giardino di Parma dipingerà la nave d’Argo nell’incontro di Teti e le Sirene con Pelèo, Teti violata nella grotta marina da Pelèo, anonima Galatea e altrettanto anonima Sirena nella descrizione di Giovan Pietro Bellori, e Teti che esorta Pelèo e la nave d’Argo a ripartire, negli sparsi esiti di Agostino il terzo momento negli affreschi di Parma di un incontro della dèa marina con Pelèo, interpretato nel secolo scorso come il Convito di nozze di Pelèo e Teti (Anderson 1970). Nella Galleria Farnese il ritratto infantile di Margherita Aldobrandini nel volto di Elena del riquadro di Proteo (Agostino Carracci, National Gallery, Londra, disegno), sarà più che mai infittito da citazioni archeologiche eloquenti, rivisitate da Carlo Maratta: la testa di Proteo che la trascina dal Busto di Caracalla della collezione Farnese al Museo nazionale archeologico di Napoli ed il torso, come anche il dorso di Tritone, l’addome e la schiena del Torso del Belvedere. Le Doridi intorno, dalla Venere accovacciata Farnese del Museo nazionale archeologico di Napoli, e le teste di Giunone e Minerva, dal profilo della statua di Hera e dall’Atena della collezione. Dipinta la Buona ventura di Caravaggio appartenuta al cardinale Francesco Maria Del Monte, l’amorevole presagio di fortuna del ritratto di due giovani sarà annotato alla morte del collezionista come un ‘Coridone e Zingara’ nell’inventario di vendita della raccolta.

 

 

 

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