E’ da poco uscito, con il Corriere della Sera del 17 marzo 2020, a cura di Philippe Daverio, il settimanale ‘Caravaggio. Canestra di frutta’. Doveroso far risalire al XX secolo, come ha fatto Daverio nella sua introduzione a quest’ultimissima edizione dedicata al pittore milanese, la rivoluzione critica legata al nome di Caravaggio e non invece l’apprezzamento controverso nei suoi confronti, appartenuto ad ogni secolo e non sempre da attribuirsi ai suoi detrattori in vita.
Subito dopo le ‘Note sulla Galleria Borghese’ apparse nel 1909, gli ‘Studii su Michelangelo da Caravaggio’ di Lionello Venturi (L’Arte, 1910), dai quali è tratta la copia fotografica in bianco e nero qui pubblicata (fg1a), forse la riproduzione più originale del dipinto di Caravaggio ora osservato da Daverio, l’avevano definita una ‘Canestra di frutta’, coniando la formula didascalica che tanta parte ha avuto in quella rivoluzione della critica d’arte. Venturi vi rileggeva il ‘Musaeum’ (1625) del cardinale Federico Borromeo, che aveva descritto - donatore lui stesso all’Ambrosiana il 28 aprile del 1618 di ‘una cesta di frutti di Michel Angelo da Caravaggio, sopra la tela, larga un braccio et alta tre quarti, senza cornice’ - non una fiscella qualsiasi, ma la Fiscella di Caravaggio, il dipinto ambito e amato per se stesso. Se ci fossero dubbi che il craquelé nella riproduzione non appartenga solo alla stampa fotografica, limitato allo sfondo come vi appare, l’immagine è confrontabile alla foto Anderson (fg1b), in cui la neutralità del fondo senza ombre, al contrario, è nitida. Nella seconda inquadratura il film pittorico chiaro era stato consolidato e tra questa seconda fotografia, non pubblicata nel 1919 dalla Roma Barocca di Antonio Munoz, e la prima erano alle stampe nel 1928 le Precisioni di Roberto Longhi della Pinacotheca: lo stato di conservazione della tela oltre che irripresentabile era stato rilevato ad alto rischio e passibile di intervento parziale. Una copia fotografica della seconda immagine di risultato della pulitura è anche nell’archivio dell’Istituto Centrale di Restauro (1939), presumibilmente dalla negativa (ICCD, formato 6x6) di Domenico Anderson. Un ultimo confronto bibliografico, con la tavola I dell'Arte barocca di Matteo Marangoni per i tipi fiorentini di Vallecchi consente di datarla 1927.
Estrapolandone in parte la descrizione dal dibattuto testo del Musaeum di Borromeo: (“[…] nec abest gloria proxima huic [n.d.r.: il Vaso di fiori con gioiello, conchiglie, monete e una farfalla di Jan Brueghel dei Velluti avuto nel 1606, pagato al peso d’oro del suo ‘adamantum’] fiscella ex qua flores micant. Fecit eam Michaelangelus Caravagiensis Roma nactus auctoritate [...]”) ci sarebbe molto da dire sulla distanza, non solo secolare, con il lavoro di Venturi sempre più immerso nella chimica dell’oggetto artistico, nonostante alcuni abbagli attributivi. Per dire che i frutti vi hanno ‘una bella cera’ e un’attraente flagranza è superfluo cercare ora conferme di quelle gocce nel botanico Pietro Andrea Mattioli o in Simone Peterzano, o in Vincenzo Campi, Panfilo Nuvolone, Giuseppe Arcimboldo e nello stesso Maestro della natura morta di Hartford, che nella varietà e nella tecnica di pittura su rame erano maestri: il confronto nell’Ambrosiana era scaturito ad evidenza con il virtuosismo affastellato di qualche altro prezioso dipinto di Jan Brueghel dei Velluti del medesimo proprietario. Anche se dei fiori, cui accennava Borromeo per metonimia, nella Fiscella non vi è nemmeno l’ombra, solo stille di nettare o di rugiada e colori accesi di frutta matura, e’ indubbio che si tratti dello stesso quadro.
Il testo critico centralmente riedito dal volumetto del Corriere della Sera è quello della scheda di Maurizio Calvesi nel catalogo della mostra ‘Caravaggio’ del 2010, inevitabilmente stralciato del suo apporto più consistente e che si fa leggere edito da Skira, anche a proposito dei numerosi codicilli in cui era consistita l’interezza della donazione borromaica. Più complesso sarebbe sovrapporre l’esclamazione di Giulio Mancini che, nella sua biografia del pittore delle ‘Considerazioni sulla pittura’, postillava: “...fece […] storia non di figure”, lettura che è solo una proposta per un passo abbreviato e lacunoso, trascritto ancora interrogativamente in quest’altro modo (1956): “...et fuge a ciò non figure.” Interpretazione che, per il fatto di non avere altro argomento visibile che un semplice oggetto, se non questo cesto di frutta, potrebbe voler dire (se fosse appropriata) che dipinto da Caravaggio ed esposto ad una molteplicità di testimoni anche un oggetto qualunque sarebbe protagonista, avrebbe fatto storia. Sarebbe una golosa natura morta per antonomasia caduca, o biodegrabile, di una manifattura non unica nel suo genere tra le opere di Caravaggio non solo alla luce di Giovanni Baglione e a quella più tarda di Giovan Pietro Bellori. Il quale a sua volta avrà scritto che, a Roma nello studio del Cavalier D’Arpino, “fu tolto alle figure”, figure alcune delle quali, a differenza della Canestra lo stesso Suonatore di liuto destinato al cardinale Francesco Maria Del Monte, rimastevi nel 1607 all’atto della confisca papale dei beni dell’illustre bottega.
Desiderabile per Mancini anche un quadro di Caravaggio in cui non vi fossero figure umane, sarebbe la Canestra una delle sue opere migliori, spiegando inoltre come e perché non solo un committente dello stesso rigore morale del cardinale Borromeo non l’avrebbe scambiata con nessun'altra, nemmeno per farla copiare.
Nell’inventario della confisca romana nel 1607, quando il pittore soggiornava a Napoli, c’era ‘un quadretto piccolo con la figura di una farfalla in tavola’, una testimonianza, quindi, resa al vivo della consegna delle sue opere, o per meglio dire con le parole del tempo, senza alcun rapporto della notizia con un’espressione da taverna, del loro “spaccio” (Vincenzo Giustiniani, Lettera a Teodoro Amayden, ed. Roma 1675). Cioé, nella tavola non vi era solo il disegno di una farfalla o di oggetti inanimati, ma una farfalla in quello studio vi faceva, se non storia, pittura senza altre figure. Alla Pinacoteca Ambrosiana nel 1618 c’era una tavoletta (fg2), in cui compariva un vaso di fiori della ‘mano’ di Jan Brueghel, che si componeva alla sommaria descrizione di quell’altro elenco. C’è un’effimera farfalla che vola verso la luce (parafrasando Giambattista Marino) come un’alata Psiche, e questa tavoletta è una res nullius più piccola della Canestra. Sulla diagonale dell’ombra sulla parete si staglia una foglia staccata e rovesciata dal battito d’ali, nell’angolo di un tavolino il vaso di fiori e alcune pere; già attribuita a Fede Galizia (1969), ma dal colore a olio - restaurato nella seconda metà del secolo scorso - oggi ancora più anonimo italiano. Se non fosse per il bianco polposo dei fiori, da ‘picciol cannone’ oppure, lessico tolto ancora a Marino, mirino da tavolo, poiché al confronto della foglia sono gravi e inerti, non ci sarebbe percezione dell’aria percossa dalla cavolaia, con una naturalezza lontana tanto dalla sperimentalità da illustrazione scientifica dell’incisione, quanto dalla miniatura decorativa di un tulipano così raro che, in tema di pittura dei valori, quasi nemmeno un Giustiniani a Roma avrebbe potuto ricevere. Come nell’inventario del 1618, che, circostanziando la mano del pittore al vaso di fiori, la diceva senza alcuna firma è incerto che il discutibile protagonismo di quest’ultimo possa identificarsi colla tavolozza di Jan Brueghel il Vecchio, sebbene fosse nel gruppo di opere sue e gli fosse probabilmente appartenuta.
Quarant’anni dopo Gli Studii, tornato nuovamente a parlare della Canestra, senza aver mai smesso realmente di farlo, datando lui stesso la soglia della critica caravaggesca nel Novecento (1909), Venturi ne pubblicava un’altra fotografia, non meno bella delle precedenti e, a differenza della prima inquadratura che era priva di referenze fotografiche, questa volta eseguita espressamente per l’edizione del volume ‘Il Caravaggio’ del 1952 dall’Istituto Geografico De Agostini di Novara (fg3): nella luce della fotografia entrava lo spessore del piano dal quale sporgeva il cesto di frutta, la prospettiva di una finestra. Nella versione della Cena in Emmaus (National Gallery, Londra) uno stesso cesto di frutta, per prenderne in considerazione il rapporto di scala delle grandezze, è in bilico, oltre che fuori stagione e vietato al tempo nella pittura sacra, tanto più se è vero che questa sia la tela ottenuta dal sofisticato cardinale Scipione Borghese e sempre mostri, imbandendo frutta invece che insalata, la frugalità del pane della benedizione. E’ singolare che dell’idea della Fiscella esistano innumerevoli copie, ma nessuna fedele all’originale, nonostante sia stato conservato in un museo pubblico, un’Accademia per definizione, come l’Ambrosiana era stata dalla sua fondazione nel 1609 (Rivola 1656) e, a differenza di altri dipinti di Caravaggio che hanno subito ovunque vicende collezionistiche criticamente molto contorte, vi sia rimasto unico, di proverbiale abbondanza: il che equivarrebbe a dire non tanto che Borromeo, che l’aveva avuto prima del 1601, non l’avesse fatto copiare, ma che nell’Accademia stessa non vi fosse maestro tale da duplicarlo. In effetti nel 1618 c’era anche il quadretto di una Farfalla e nel discorso di Borromeo era sempre la Fiscella più di ogni altra paragonabile alla cesta sporta dalle braccia virtuose, che la scaricano, del Fruttarolo, il Giovane con canestra di frutta nella confisca D’Arpino restato alla Galleria Borghese, le cui spalle nude hanno più a che vedere con una stoica voluttà. La realtà fruibile dei colori non vi è precisamente una realtà autobiografica o una condizione, è la verità riconosciuta alla parola provvidenziale, anche per la critica del Novecento: in questa prospettiva escatologica della Fiscella Caravaggio aveva convertito perfino Narciso in San Giovanni Battista alla fonte. Senza il suo abito di soldato (un soldato di Erode), neppure la nudità integrale, che è stata definita mimesi michelangiolesca d’intensità marmorea, della versione del San Giovannino (Musei Capitolini, Roma) sarebbe più eroica, disarmante ferinità. Caravaggio dipingerà il Santo a terra quasi interamente scoperto come Cristo, fino alla Decollazione della Cattedrale di San Giovanni Battista di La Valletta (Malta). Raffaello nella Scuola d’Atene dipinse un giovane nudo col mantello che irrompe a sinistra, portando volumi sotto al braccio e si volta bruscamente chiamato: nell’impetuosa figura è probabilmente rappresentato il giovane Alessandro Magno, elogiato da Isocrate, mentre nell’autodidatta Epicuro coronato di pampini e appoggiato ad uno stilobate è ritratto in realtà Fedra Inghirami (Reali 2011), mèntore di Raffaello stesso, autoritratto nella parte opposta dell’affresco nei panni di Apelle, accanto al più anziano Sodoma, attivo anche a Villa Farnesina, che è invece in quelli di Protagora, nella competizione narrata nel Cortegiano di Baldassarre Castiglione. Alla luce del racconto biblico risalta la prospettiva non meno in bilico della Natura morta Kress (National Gallery, Washington), sulla cui curiosità analitica oscilla la possibile identificazione con una Cucina di Casa Martelli in altre fonti letterarie, nella cui prospettiva spiccano una vespa e una mosca quali uniche convitate.
Ai suoi interlocutori il cardinale Borromeo in realtà discorreva nella forma del monologo con tutta l’autorità di una statura pubblica, per la quale la profana farfalla era l’inezia secretata ad un’altra autorità, più di ogni altra rappresentativa di un’inosservanza ormai dilagata ovunque, imitata dai rami di Jan Brueghel il Vecchio fino a farla propria nell’orbita di Pietro Paolo Bonzi e non meno da Jan Van Kessel. Era concreta quindi la parvenza che il Fruttarolo non fosse l’unica opera simile di Caravaggio nello studio D’Arpino che qualunque pittore avrebbe voluto avergli dipinta e nemmeno fosse l’unica che il cardinale Borromeo non avesse potuto pretendere. Da altra documentazione nelle fonti era giunto alla notorietà che il San Giovanni Battista della Galleria Borghese fosse stato consegnato al cardinale Scipione solo nel 1613, verosimilmente da Lanfranco Massa confidente della famiglia Doria, sebbene non altrettanto fosse avvenuto per la Salomé (National Gallery, Londra). Il mantello rosso di quest’ultimo San Giovanni Battista lo contraddistingue alla stregua di un attributo tolto alla statuaria classica e la nudità del giovane vi è avvicinata ancora alla spoliazione della vittima.
Utili le sinossi del volume dedicato a ‘Caravaggio. Canestra di frutta’ nella collana ‘I Capolavori dell’arte’ ora presentato: una Cronologia delle opere maggiori, che sono state tra le più dibattute; una tavola delle localizzazioni nel mondo, Dove trovare opere di Caravaggio, ma non solo, se gli sono state spesso negate come il S. Giovanni Battista della Cattedrale di Toledo ora elencatogli, e con vistose eliminazioni, qualche volta esasperate (dalla celebre nota 35 del citato testo di Venturi) o con indiscrezioni, come per il Seppellimento di S. Lucia, che si trova nella chiesa di S. Lucia alla Badia nella zona monumentale di Siracusa sotto osservazione (2012) ed era stata sempre, eccetto che nel secolo scorso, se e quando visibile, nella chiesa di S. Lucia al Sepolcro alla Marina; poi uno spaccato della sua fortuna tra Roma e Napoli e una sintesi dei Seguaci che nella maggior parte conobbero il pittore in vita ed infine un’Antologia critica. Tra le parentesi di avvertenze al visiting lettore, se non proprio al turista virtuale, la versione del Fanciullo o Ragazzo morso dal ramarro Longhi è stata anche esposta a Palazzo Pitti (2019). Un editing digitale apparentemente da edicola, ma combinato al pregevole copyright (1984, 2014-2015) del nutrito gruppo di fotografie a colori dell’Archivio Scala su concessione del Mibact, tutt’altro che una Creative Commons, è sempre definito al meglio per apprezzare lo stato dell’arte fotografica senza prevaricare la documentazione dei dipinti pubblicati dopo il restauro, sebbene con accorgimenti grafici per memorizzare il quadro. Volendo recuperare più che ripercorrere una sintetica storia fotografica del Canestro di frutta, non dovrebbe mancare la riproduzione del fotocolor apparso nel 1960 nella collana dei Fratelli Fabbri Editori (fg4), un capolavoro fotografico nella distribuzione da edicola, se confrontato al doppio editing d’immagine di Venturi nel 1951, sia in bianco e nero che con tavola fuori testo a colori, consecutivo alla foto Alinari della Mostra del Caravaggio curata da Roberto Longhi a Milano (cliché tipografico della Zincografica Monzoni di Milano). Ben dettagliati crediti fotografici convincono del fatto che fotogenico sia proprio il quadro di Caravaggio: per snaturarlo occorrerebbe la matematica di Paint Shop. Nell’insieme davvero ludico, come sempre le conversazioni di Daverio, senza scivolare nell’aneddotica o nel luogo comune, questo nuovo titolo si aggiunge con brio alla chilometrica fototeca caravaggesca, confermandoci che questa tavola, come il più tenue Fanciullo morso dalla lucertola
avuto da Vincenzo Giustiniani (fig.5a.b), a sviluppo invece verticale, e nondimeno l’altro della Fondazione Longhi, un ritrattino della ritrosia pusillanime, una smorfia incresciosa da casta Susanna di un ragazzo insidiato dal morso di un rettile, è piuttosto piccola (cm.31x47), oltre che simile allo scorcio della cesta del Fruttarolo, quest’ultimo databile poco dopo l’altro in cui autentico protagonista è il ramarro o lucertola, e invece del primissimo tempo. C’è da dire che l’annerimento della tela, già in collezione privata, nella riproduzione in bianco e nero (fg5b) del secolo scorso è dovuto al contrastato supporto del trattamento fotografico della gelatina, alla quale è da attribuire un ruolo da influencer, non sempre precisabile. Similmente, l’introduzione nell’analisi dei dipinti di laser scanner a colori ad alta risoluzione, come nell’immagine prodotta dal Range Vision Spectrum 3D a luce strutturata, si avvale di altrettante capacità tecniche che reclamano ulteriori competenze di esportazione dei dati colorimetrici di superficie. Ora, quel che resta della lucertola è molto simile a com’è dipinta la farfalla, pure se, a differenza di una farfalla, non sarà stato affatto semplice, sempre alla fine del Cinquecento, trovare un pittore disposto a farne una con lo smacco del ribrezzo, cui perfino le vipere e le bisce sono suscettibili, ritraendosi, nella testa troncata di Medusa (Uffizi, Firenze), un 'ex voto suscepto'.
Non senza ricordare che Pier Paolo Pasolini, anche formatosi con Roberto Longhi e Lucia Lopresti (pseud. Anna Banti), non aveva esitato a intitolare laconicamente al fiore di latte già topico in tante fiabe La Ricotta (1963), una pellicola che è l’attualità della storia della Passione (Crivelli 2017), fiscella non è soltanto un termine latino, è invece molto frequente nelle occorrenze del Vocabolario della Crusca. Nel mediometraggio, in cui accanto a Pasolini alla macchina da presa faceva la sua comparsa Bernardo Bertolucci, facendoci vedere la res nullius del montaggio e smontaggio della scena, e dal bianco e nero al colore, di un capolavoro di Pontormo (Greene 1990), col sovrapporlo alla Deposizione di Rosso Fiorentino, metteva a nudo la fragile ossatura di un mostro sacro non solo cinematografico, la vanagloria di un’autentica carneficina. Il fatto è che Borromeo sacralizzava la vanitas libatoria della Fiscella in vista, invitante alla finestra, parlando in casa sua la lingua collegiale della dottrina e glorificando la verità di un cesto di vimini, sfaccettato come un cristallo, lo commemorava ineguagliabile per la morte dell’artista, romano di coscienza. Stupirebbe che una fotografia, micro e macro, fosse pure di Instagram, sapesse farla più oscena del filamento del suo pennello, se pure in bocca a Gioacchino Belli non fosse stata una froscella di paglia (Le figurante, ed. 1883), non fosse stata che un miraggio.
Per chi volesse approfondire la storia documentale work in progress del Cesto di frutta è accessibile il Portale Ares dell’Istituto Centrale del Restauro, al quale pertengono i crediti della sequenza d’immagini (fg6, 7), assemblati in rapporto alle fonti bibliografiche. Nella riproduzione della lastra radiografica (fg7) è osservabile stratigraficamente la voluta con una rosetta di un capitello (Salerno 1966), mimesi strumentale per divaricare la foglia di vite come dallo specchio marmoreo di una reliquia, alla quale allude più di ogni altro dettaglio il buco fatto dal baco nella mela in primo piano. Interpretata tecnicamente alla stregua di riuso di una tela preesistente già abbozzata se non proprio rappresentazione dal vero, la fiscella si stacca dal bianco denso come una pianta assetata da un muro, dal quale nulla vieta schizzi fuori una lucertola, a trovare non solo il peso e la rotondità, che la sbilanciano, ma l’acqua e il calore che sprigionano dalle foglie umide e riverse ad essiccarsi al sole.