Una brillante novità degli Editori Pàparo è il volume di Sergio Rossi dal titolo Caravaggio allo specchio tra salvezza e dannazione, presentato all’Accademia Nazionale di San Luca il 5 dicembre 2022 da Claudio Strinati, Marco Bussagli, Stefania Macioce, Rodolfo Papa e Serenita Papaldo. Un nutrito gruppo di esperti lo ha illustrato ad una sala oltre ogni previsione gremitissima di intenditori, di giornalisti, di critici, di studiosi coinvolti e di appassionati, con la partecipazione dell'autore, spiegandolo rivolto all’analisi dello specchio dell’anima del pittore, dentro un profilo critico profondamente iconologico.
Il libro completa lo studio formale di alcune opere di Caravaggio rese più significative dai progressi storici e dalle riscoperte dei decenni passati, in rapporto agli episodi salienti della tormentata biografia caravaggesca vista sotto ogni angolazione, anche della documentazione archivistica. Da ogni sua pagina traspare la forza di una lettura delle opere sostenuta su innumerevoli piani, soprattutto laddove apparentemente contraddittori e, attraverso le fonti biografiche degli scrittori del Seicento, riconsiderando ogni dettaglio utile ad affinare la conoscenza di quelle protagoniste, che, immancabilmente tra le più amate anche dal pubblico, vi compaiono ciascuna come un libro aperto.
Fatale è soffermarsi sulla Presa di Cristo nell’orto, che Rossi, a scanso di equivoci, intitola come è tracciata non solo dalle fonti biografiche e letterarie seicentesche, ma come compare annotata nei primi documenti che la resero memorabile nella collezione romana dei principi Mattei. E’ vero che di questo soggetto di Caravaggio è diffuso il nome, con analogo significato religioso, di Cattura di Cristo, e che anche Vincenzo Pacelli aveva sostenuto l’autografia prevalente del quadro oggi nella romana raccolta Bigetti e già in collezione Ladis Sannini di Firenze (Fig.1), esposto da Roberto Longhi come una ‘copia del Caravaggio’ della Cattura di Cristo nella Mostra del Caravaggio del 1951. Sergio Rossi sostiene nel volume nuovissimo l’autografia di questa Cattura, nel 2022 ritornata a pieno titolo a far parte della collezione romana Bigetti, che ne aveva subito il sequestro per una controversia giudiziaria insorta dopo il suo acquisto avvenuto nei primi anni duemila.
Fig. 1 - Caravaggio, attribuito, Presa di Cristo (Collezione Bigetti, Roma, già Sannini, Firenze)
E’ dirompente che dell’esemplare ritrovato a Dublino nel 1993 il suo libro renda chiari ed evidenti alcuni aspetti, in pieno qui condivisi, che lo definiscono la copia della Presa di Cristo di Caravaggio eseguita da Gerrit van Honthorst per la collezione Mattei, presupponendo ora Rossi che anche la Bigetti provenga dalla raccolta romana. Longhi, che nel 1928 aveva visto a Londra due esemplari dello stesso soggetto della Presa di Cristo, segnalati nel 1943, avrà sottolineato la fedeltà al perduto originale della tela oggi Bigetti nel 1960, confrontandola con poche altre tele, tra cui quella del Museo Statale d’Arte Occidentale ed Orientale di Odessa, per la sua maggiore aderenza alla descrizione di Giovan Pietro Bellori del quadro della Presa o Cattura Mattei, nella quale lo storico, in particolare, aveva dato rilievo alla figura di S. Giovanni: “...e tra questi il marchese Asdrubale Mattei gli fece dipingere la Presa di Cristo all’orto, parimente in mezze figure. Tiene Giuda la mano alla spalla del Maestro, dopo il bacio; intanto un soldato tutto armato stende il braccio e la mano di ferro al petto del Signore, il quale si arresta paziente ed umile con le mani incrocicchiate avanti, fuggendo dietro San Giovanni con le braccia aperte.” Ed è a questo profilo critico ed al successivo saggio longhiano del 1969, che si riallaccia Sergio Rossi, con una rilettura della quale non è ingrato parlare.
Bellori non lasciava spazio ad ambivalenze interpretative dell’iconografia caravaggesca della Presa di Cristo nella raccolta Mattei, precisando che è S. Giovanni il giovane che fugge con il mantello di Cristo e inoltre che: “...dietro s’inalza una lanterna, seguitando due altre teste d’armati.” Nel testo belloriano è descritta una lanterna che illumina la scena e nemmeno è detto che, degli altri armati, il giovane che la regge sia da identificare con Malco, che era frequentemente figurato dai pittori nella stessa scena della Passione con il bacio di Giuda. Una descrizione, nella seconda metà del Seicento, che consente di circoscrivere il soggetto di Caravaggio e di differenziarlo da altre tele anche della collezione Mattei, non tutte ritrovate: quelle che nelle note inventariali familiari includevano nella scena l’episodio di S. Pietro che taglia l’orecchio a Malco o del giardiniere che fugge con il mantello di Cristo, secondo lo storico dipinto invece da Caravaggio ‘con le braccia aperte’. Il testo distingueva nel quadro il dettaglio delle sue braccia (avvolte dalle maniche della veste) da quello del giovane, che è narrato nell'episodio del Vangelo secondo Marco (Mc 14: 52), e che fuggì via nudo, lasciando il lenzuolo. L’ampio gesto delle braccia di Giovanni, ricorrendo in molte copie pubblicate da Longhi con minore, e, tra loro, uguale evidenza rispetto alla tela Bigetti già Sannini, non aveva impedito, infatti, a Maurizio Marini nel 1974 di avanzarle del tutto l’esemplare del Museo Statale d’Arte Occidentale e Orientale di Odessa (fig.2) con datazione 1598, un dipinto che talvolta è sostenuto tuttora alla stregua di originale ritrovato. Marini, dando corpo all’idea di Longhi del 1969, presupponeva il dipinto originale di Caravaggio essere stato venduto a William Hamilton Nisbet nel 1802 dai Mattei e giungeva a stimare il dipinto di Odessa decurtato lateralmente già ‘ab antiquo’, nel dettaglio delle braccia più corte dell'Evangelista.
Fig.2 - Caravaggio copia da, Presa di Cristo (Museo Statale d’arte Occidentale e Orientale, Odessa)
Sulla scorta di Longhi lo considerava fedelmente riprodotto nella collezione Mattei intorno al 1620 soltanto dalla copia già Sannini oggi Bigetti (fig.1), un’ipotesi che ora è smentita da Sergio Rossi, che rivaluta invece quest’ultima alla statura di originale ritrovato. E’ infatti oggettivo che il quadro di Odessa non fosse quello venduto a William Hamilton Nisbet, che è stato ritrovato nella Comunità Gesuita di Dublino, dove è esposto al pubblico in deposito permanente della Galleria Nazionale di Dublino come originale di Caravaggio dal 1993, dopo l’intervento di restauro di Sergio Benedetti, che lo liberò del cartiglio della cornice, che ancora lo documentava di Gherardo delle Notti. Solo nel 1995 il dipinto fu portato in mostra a Roma, già corredato della scheda di Benedetti che lo riferiva a Caravaggio. Lo studio del quadro aveva confermato che l’originale e la copia della collezione avessero poche differenze nella resa del soggetto anche per Benedetti, ma non furono esposti in mostra né la Sannini oggi Bigetti (fig.1), né il dipinto che è agli Uffizi (fig.4), che né Longhi, né Matteo Marangoni avevano pubblicato e probabilmente mai visto, trovandosi anche nella prima metà del secolo scorso in deposito esterno degli Uffizi. Pur sempre disattesa l’acuta disamina di Mia Cinotti (1989) che, citando il testamento di Lanfranco Massa dell’8 maggio 1630, vi trovava elencato nell’inventario testamentale come di Caravaggio: ‘Un quadro di nostro Signore quando fù tradito da giuda con cornice’, probabilmente un’altra copia fatta eseguire dall’originale, che era inventariato nel 1613 nel Palazzo Mattei e una sicura testimonianza che la fama del soggetto di Caravaggio, che nel documento Massa aveva una titolazione ancora diversa, avesse varcato da tempo la soglia del palazzo romano, quando Bellori ve la descriverà con il titolo pertinente negli inventari familiari alla metà del Seicento.
Fig. 3 - Caravaggio, Martirio di S. Matteo, particolare (Cappella Contarelli, S. Luigi dei Francesi, Roma)
Nel 2010 il dipinto dublinese fu nuovamente esposto a Roma come l’originale nel medesimo stato conservativo, con un’altra scheda di Sergio Benedetti che lo quantificava di non grandi dimensioni rispetto alla Bigetti (fig.1), quando sia quest’ultima tela che il dipinto di Odessa si trovavano sotto sequestro. Il quadro venduto all’Hamilton Nisbet da Giuseppe Mattei sarà stato descritto nel 1802 nella richiesta di licenza come ‘l’Imprigionamento del N.[ostro] S. [ignore ] Gherardo della Notte’ e risulterà essere nella relazione di Carlo Fea, alla promulgazione dell’editto del 1802 con il divieto di esportare le collezioni romane, una delle poche opere di rilevante interesse rimaste nella collezione Mattei ai fini dell’esercizio delle assegne da parte dello Stato pontificio: inverosimile che potesse essere stato scambiato con l’originale dai proprietari, certo che fosse stato stimato fiammingo ai fini della riserva e perfino con il nome di Pietro Paolo Rubens all’atto della richiesta di licenza di esportazione dallo Stato pontificio, perché ne fosse esercitata la prelazione. Ne esaltava il valore, allo stesso modo degli inventari e delle guide, un gruppetto di descrizioni piuttosto nutrito (perché dell’uno e dell’altro dipinto se ne fosse persa la memoria), che dalla fine del Settecento e per tutto il primo decennio dell’Ottocento avranno menzionato solo la copia della Presa di Cristo dell’Honthorst nella collezione, venduto nel 1802.
E’ significativo rilevare che l’interruzione ‘à tranche de vie’ delle braccia improvvisamente tagliate fuori dal quadro della figura di S. Giovanni è un ‘modus’ della composizione a mezze figure che si riscontra anche in dipinti a figure intere di Caravaggio: nel Martirio di S. Matteo della Cappella Contarelli a San Luigi dei Francesi, alle spalle del re d’Etiopia Irtaco, il mandante del Martirio, in cui Caravaggio ritrasse Enrico IV di Navarra, con riferimento ad avvenimenti storici a lui contemporanei, c’è la figura di un personaggio al suo seguito, un catecumeno testimone dell’assassinio perpetrato dal re, che è tagliata fuori dal margine sinistro della tela (fg.3).
Fig.4 - Caravaggio, Presa di Cristo (Uffizi, deposito Palazzo Pitti, Firenze)
Anche questa grande tela era stata tirata sul telaio per ragioni di visibilità e di mantenimento conservativo, restringendone la luce e si tratta di una grande tela in cui dall'immagine spettrale è emersa, a più riprese sottoponendola a diagnostica X-rays, una composizione sottostante completamente differente e alla maniera del Cavalier Giuseppe Cesari D’Arpino: una tela riutilizzata, quindi, subentrando il pittore nell’incarico e reinventando in larga parte il soggetto commissionato in corso d'opera. Per quest’altra evidenza l’ipotesi che le tele della Presa di Cristo che mostrano le braccia troncate di S. Giovanni siano tali per un difetto compositivo del copista e siano tratte da un’altra copia decurtata originariamente ai margini, viene a mostrarsi, proprio perché il troncamento delle braccia del Santo in secondo piano è ripetuto allo stesso modo in molti esemplari (fg.2), marginale rispetto al processo creativo che volle armonizzare l’Evangelista con le braccia aperte in parte al di fuori della visuale del quadro, com’è anche nella tela degli Uffizi (fg.4), per metterne in luce il fugace protagonismo nell’episodio del Vangelo nell'orto degli olivi. Un ripensamento compositivo in superficie di un dettaglio della storia della Passione nei Vangeli, che dava corpo alla testimonianza della scena del tradimento di Giuda del Vangelo di San Giovanni ed alla fuga dei discepoli del Vangelo di Matteo.
Riguardo la traccia della cornice rabescata della Bigetti già Sannini (fig.1), che secondo Rossi sarebbe quella originaria nella raccolta Mattei, nulla vieta che anche altre copie riconosciute negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso del medesimo soggetto di Caravaggio montino un modello di cornice diffuso non solo nel Seicento. Di per se stessa la cornice della Bigetti è una prova che nessun’altra copia proveniente da una collezione privata, ad eccezione di quella di Gherardo delle Notti, abbia avuto nell’Ottocento una collocazione museale dello stampo del Museo di Edimburgo di William Hamilton Nisbet, la National Gallery of Scotland, tale da vantare pubblicamente, con l’autenticità per acquisto, la provenienza romana del quadro incorniciato con tutto il cartiglio ‘Gherardo delle Notti’ che lo certificava: tutt’altro che l’originale di Caravaggio sia per l’acquirente che per i primi proprietari, che nel 1802 già avevano esportato e notoriamente venduto i pezzi migliori della collezione.
L’originale Mattei, descritto da un inventario all’altro della raccolta, spesso senza attribuzione d’autore, poteva essere stato pulito, rifatto il bolo della cornice con la taffetà che non copriva la tela, restando il dipinto esposto nella medesima sala fino alla metà del Settecento, la prima anticamera al primo piano o piano nobile del Palazzo Mattei ai Funari, il complesso denominato sempre Palazzo all’Olmo sulle piazze Mattei e Paganica, e le differenze della filettatura dorata delle cornici impercettibili per gli estensori degli inventari tra Seicento e Settecento. La tela della Presa di Cristo esposta a Palazzo Pitti a Firenze nel 2019 nella Sala di Berenice, nuovamente chiusa al pubblico, negli anni Cinquanta collocata in deposito esterno degli Uffizi, al suo rinvenimento in deposito nel 1976 e nel 1993 nella Caserma dei Carabinieri Baldissera di Largo Pecori Giraldi, si presentava scurissima e con la cornice dorata (fg.4), che aveva nell’inventario palatino del 1802. E’ stato recuperato nel recente restauro prima della breve esposizione nel 2019 nella Sala di Palazzo Pitti, oggi temporaneamente chiusa al pubblico, il bolo bruno della cornice, tinteggiato nero, che aveva avuto nell’inventario del 1753 del Palazzo Mattei di Giove del successore di Ciriaco, del duca Girolamo e di Asdrubale Mattei: il duca Giuseppe. La cornice era stata riadattata alla tela tirata su tavole per ragioni conservative, restringendo nel bordo inferiore la luce del quadro, una tecnica certo usuale sia a Roma che a Firenze anche nel Settecento. L’ipotesi che i due dipinti, originale e copia, fossero stati scambiati nel Seicento nella Galleria Mattei si scontra con la rilevanza della tela di Caravaggio negli interessi familiari dei duchi romani, tanto da averne ordinato anche Asdrubale Mattei una copia, per la quale era risultato un pagamento da lui eseguito nel 1626 ad un pittore poco noto, tale ‘Giovanni di Attili’ e presunto per conto di Gerrit van Honthorst, Gherardo delle Notti. Senza escludere per questo che ne fossero state eseguite altre copie, ritrovate in gran numero in tutto il mondo, fosse pure da Giovanni Serodine di Ascona che lavorò per Asdrubale Mattei, con o senza variazioni determinanti del soggetto, è ancora difficile stabilire soprattutto quali, anche d’autore, fossero sempre registrate negli inventari di fine Settecento, poiché è realmente consistente la vicissitudine del duca Giuseppe Mattei di Giove in condizioni di cedere prima la “Presa all’horto di Michele da Caravaggio”, così com’era menzionata anche nella Nota delli Musei (edita anonima a Roma nel 1664), della copia di Gherardo delle Notti.
Charles Nicolas Cochin, che visitò le Gallerie granducali di Toscana ed i suoi innumerevoli gabinetti, editando il suo Voyage d’Italie nel 1758, sembra attribuire la Presa di Cristo giunta a Firenze, a Tiziano stesso, rilevandone al contempo un colore troppo giallo per essere un autografo di Tiziano, a colpo d’occhio il giallo prevalente degli incarnati che si sovrapponevano l’uno sull’altro alla luce della lanterna, riflessa dalle armature. Certo che il Bacio di Giuda a mezze figure della sua descrizione era più aderente che mai alla copia di Bartolomeo Manfredi (fig.5), la tela dei Lorena, in cui i gialli erano predominanti, serici alla luce della lanterna. Una menzione ad un pittore maggiore sufficiente per Luigi Lanzi a non avanzarne un recupero di autografia caravaggesca, come fece per le tele medicee di Bartolomeo Manfredi, alcune delle quali anche Jerome De Lalande nel 1766 avrà attribuito a Caravaggio. Tra queste attribuzioni caravaggesche l’Incredulità di S. Tommaso, tela copia di Bartolomeo Manfredi ed il Cristo coronato di spine o Derisione di Cristo agli Uffizi, un soggetto che Manfredi replicò molte volte e che per molto tempo venne ritenuto a sua volta provenire a Firenze dal Castello di Commercy, appartenuto agli Asburgo Lorena, fino al ritrovamento degli inventari del 1638 di Palazzo Pitti e di Carlo dei Medici del 1666, in cui i Manfredi erano registrati nelle raccolte medicee degli Uffizi (Borea 1970; Papi 2010) e dove non c’era alcuna Presa o Cattura di Cristo o Tradimento di Giuda.
Fig.5 - Bartolomeo Manfredi, Cattura di Cristo (Museo d’arte occidentale, Tokyo)
Il Cristo coronato degli Uffizi era più piccolo della Cattura di Cristo di Bartolomeo Manfredi (Museo nazionale d’arte occidentale, Tokyo), riemersa al Dorotheum di Vienna nel 2002, a restauro intrapreso, ed esposta a Roma in collezione Koelliker a Milano nel 2006 (fig.5), per essere la tela che aveva fatto parte di una stessa serie della Passione di Bartolomeo Manfredi. Ed è certo che la Cattura di Cristo di Manfredi fosse appartenuta agli Asburgo Lorena nel 1735, poiché era stata incisa nella Galleria di Carlo VI d’Asburgo da Frans von Stampart e Anton Joseph von Brenner [n.d.r.: Prenner], riconoscibile com’è nel dettaglio della tavola del Prodromus della collezione imperiale proprio per l’assenza in questa copia manfrediana della figura di S. Giovanni che fugge. Polisemicamente, non aveva avuto rilevanza iconologica nell’originale la figura di S. Giovanni con le braccia aperte, che sarà descritta da Bellori, nemmeno per il primo copista di Caravaggio qual era stato Manfredi, qualificando la sua Cattura di Cristo (fig.5), incisa nella seconda metà del Seicento da David Teniers, la prima copia eseguita, al confronto del testo belloriano, forse anche quando ancora Caravaggio non aveva terminato il suo capolavoro nel 1602, solo allora dipingendovi S. Giovanni. L’assodata rilevanza del dettaglio dell’Evangelista nella tela Bigetti (fig.1) è per la prima volta messa in risalto da Sergio Rossi dialogicamente, che aggiunge non abbiano spazio in questa tela gli olivi, mentre più che evidente è nel Manfredi l’orto degli olivi del Getsemani; confermando paradossalmente l’analogia dell’esemplare di Dublino alla Presa di Cristo degli Uffizi (fig.4), tele in cui gli olivi non hanno quasi nessuna rilevanza al bordo superiore.
Nella dimensione dialogica senza categorie consiste l’ampiezza del metodo di lavoro di Sergio Rossi, che con le parole per dirle ripropone l’osservazione delle opere ai più raffinati studiosi attraverso le criticità dell’interpretazione, delineando il futuro della ricerca anche a chi non le abbia mai viste, nella convinzione che siano le opere stesse a parlare, quando visibili od esposte pubblicamente. Molto lontano da toni perentori che anche Clovis Whitfield, esperto e gallerista, aveva finito per assumere nel 2011 ne L’Occhio di Caravaggio, quando (pag.119, fig. 80-81) aveva avvalorato come due distinte repliche autografe sia il quadro a Dublino che la tela Bigetti a Roma, secondo lo studioso l’originale dipinto per Ciriaco Mattei, fondando quest’ultimo parere sui numerosi pentimenti riscontrati dall’esame diagnostico radiografico, quali altrettante difficoltà in corso d’opera “nell’organizzare una composizione così grande con tante figure.” Indagini che, a mano a mano che sono state estese anche ad un ampio spettro di opere solo attribuite, hanno teso a perdere il tratto, se non di unicità, di singolarità compositiva, specialmente riguardo ai cosiddetti pentimenti in corso d’opera, dalle prime applicazioni della tecnologia spettrale considerati pertinenti all’autografo, ma rivelatisi frequentemente presenti anche in copie conclamate di altri pittori.
L’analisi stratigrafica, negli ultimi decenni, infatti, si è rivelata a sua volta interpretabile in funzione della tecnica del riuso delle tele invalsa tra i pittori e della tecnica del dipingere alla prima sulla tela, contraddittoriamente propria anche ai seguaci di Caravaggio, che rende la tecnologia affidabile nel metodo se secondaria all’osservazione in superficie, condotta sia ad occhio nudo, sia fotografica e a luce radente che riflettografica, dove le sagome hanno consistenza e non sono ombre di pigmento più o meno addensate nell’immagine, da confrontare ai prelievi di colore con carotaggi, che non possono essere eseguiti di routine. Sempre che le tele non siano state sottoposte privatamente a trattamenti di restauro senza averne dato alcuna appropriata notizia, prassi più che consolidata, raccomandata dagli stessi musei. Sergio Rossi, quindi, si discosta dalle affermazioni più categoriche di Whitfield, giungendo a dubitare che il dipinto della Cattura di Cristo ritrovato a Dublino sia un primo autografo, e riavanzando che debba trattarsi proprio della copia Mattei di Gherardo delle Notti.
Una posizione critica che, affrontando lo studioso nel complesso il problema della committenza Mattei e delle scene della Passione di Caravaggio della galleria, tra le quali individua la Cena in Emmaus di Londra e l’Incredulità di S. Tommaso - recuperandone un autografo nell’esemplare in collezione privata, e già a Roma, nella raccolta Massimo (fig.6), che presenta al pubblico - non travolge per questo l’Incredulità di S. Tommaso Giustiniani della Bildergalerie di Postdam. Un quadro che aveva fatto accademia a Berlino, contribuendo a formare le avanguardie artistiche del Novecento ed, in particolare, il movimento espressionista, finché non venne considerato disperso durante la Seconda guerra mondiale.
A differenza della Cattura di Cristo di Dublino, l’Incredulità di Potsdam, infatti, viene ad essere confermata nel libro di Rossi quale prima versione di Caravaggio, replicata a memoria e in possesso nel 1606 di Vincenzo Giustiniani, nonostante il museo tedesco l’avesse ritenuta distrutta nel Novecento, fino al suo ritrovamento a Charlottenburg: dopo lo studio nel 1972 di Nicola Ivanoff uscito su Arte Lombarda venne pubblicata esistente e autografa, infatti, soltanto nel 1985 da Howard Hibbard (pag.167, fg.104) e considerata comunque l’opera caravaggesca più imitata dai suoi seguaci, fino a perdere il conto delle copie, o dei falsi, che siano stati segnalati solo nel secolo scorso. L’occhio sempre vigile e attento dello storico e del critico alle vivacità del mercato artistico e alla politica di acquisti del museologo, tra le attività istituzionali della ricerca, fanno del libro di Rossi un prezioso serbatoio, sul campo d’inchiesta caravaggesco sempre in fermento, degli strumenti su cui consiste la più autorevole analisi storico-artistica, più che una sommatoria dei recenti regesti documentali e delle tele, vecchi e nuovi ritrovamenti, tornate alla ribalta nell’immensa mole di lavoro svolta dai galleristi nel panorama inesauribile del collezionismo privato e dei più abili falsari non solo tra Ottocento e Novecento.
Fig.6 - Incredulità di S. Tommaso (collezione privata, già raccolta Massimo, Roma)
Né ancora, a proposito dell’argomento teorico delle repliche caravaggesche, nel libro s’incontreranno sorprese o nuove letture interpretative sul fatto che nella collezione Mattei il San Giovannino di Caravaggio fosse ovunque identificato nei documenti familiari come ‘San Giovanni Battista col suo agnello’, finché vi rimase, senza altri soggetti in cui identificarlo.
Anche la Presa di Cristo di Dirk van Baburen della Galleria Borghese (fg.7), tra le opere da lui dipinte per la chiesa di S. Pietro in Montorio dopo il 1615, mostra un’ampia capacità d’inventiva nel riprodurre il soggetto della Cattura di Caravaggio. Oltre ad un legame diretto anche con la tela della Cattura Manfredi (fig.5) nell’abbraccio di Giuda a Cristo, che nel quadro è analogamente rovesciato nella parte destra, rispetto agli altri esemplari e al dipinto Bigetti (fg.1), Van Baburen non rappresenta altrettanto nella scena la figura di Giovanni, come era sottolineato da Bellori essere ad evidenza raffigurato dall’originale Mattei, ma conferisce maggior risalto, fra tutte le tele, alla figura di Malco che stringe nel pugno la rossa tunica di Cristo. Un dettaglio che suggerirebbe piuttosto come Van Baburen, a differenza di Manfredi, non abbia dipinto Giovanni perché non ne avesse colto nell’insieme l’azione, né la complessità del significato nell’originale. Data l’assenza della figura di Giovanni nelle tele di Manfredi (fg.5) e di Van Baburen (fg.7) e l’affinità tra loro nel rappresentare il bacio di Giuda non sarebbe ovvio concludere, diversamente da Rossi, che nell’originale il giovane in fuga con il mantello sulla sinistra del soggetto avesse la rilevanza delle braccia troncate di netto che ha nella copia di Gherardo delle Notti a Dublino e nel dipinto agli Uffizi, tale da consentire comunque a Bellori di identificarvi vestito l’evangelista Giovanni, per la giovane età del discepolo.
Fig. 7 - Dirk van Baburen, Presa di Cristo (Galleria Borghese, Roma)
Laddove è Van Baburen (fg.7) a restituirci l’identità aggressiva di Malco, armato, che nella descrizione di Bellori dell’originale è nient’altri che un anonimo soldato che regge una lanterna. Ma un’altra differenza scaturisce dalla descrizione di Bellori dell’originale di Caravaggio di Palazzo Mattei, variata nella Cattura di Manfredi, nelle parole: “Tiene Giuda la mano alla spalla del maestro, dopo il bacio; intanto un soldato tutto armato stende il braccio e la mano di ferro al petto del Signore...” Ed è questa: nelle tele di Manfredi (fg.5) e di Van Baburen (fg.7) il braccio e la mano del soldato in primo piano non sono armati, guantati “di ferro”, come lo sono negli altri esemplari menzionati e nella tela Bigetti (fg.1). Una caratteristica, quella della mano nuda, che si ripete nei seguaci cosiddetti della seconda generazione, che imitarono Manfredi e Van Baburen; fra questi Matthias Stom e Gherard Seghers.
Rispetto agli altri esemplari analoghi, quindi, la Bigetti ha principalmente la peculiarità delle dimensioni della tela, più grande delle altre, non senza il dettaglio della mano del soldato guantata di ferro ed anche, sebbene in minor misura, più grande della tela Borghese di Van Baburen: in effetti le sue dimensioni sono fuori formato proprio per le misure riportate dalle trascrizioni inventariali dell’originale Mattei, perché possa essere presunto il dipinto della collezione romana maggiormente coincidente e fedele alla descrizione del testo di Bellori e non piuttosto, come quest'ultima, una copia concepita per avere maggiore visibilità una volta collocata nella cappella di una chiesa. Tanto più che la scarsità di olivi raffigurati dalla tela potrebbe essere dovuta al fatto che avesse affiancato il Cristo nell’orto degli ulivi di Caravaggio della raccolta Giustiniani, distrutto a Berlino nella Seconda Guerra mondiale.
Conferma, d’altra parte, che fosse la celebre copia di Manfredi (fig.5) a provenire alla collezione degli Asburgo dalla residenza di Bruxelles dell’arciduca Leopoldo Guglielmo d’Austria nella seconda metà del Seicento, più volte illustratavi da David Teniers, e perciò acclusa, catalogata anonima (n. 19: ‘un autre representant la prise de J. C. au Jardin des oliviers avec son cadre sculpté et doré’) nella Stanza del Tesoro dei Lorena di Palazzo Vecchio a Firenze, giuntovi da Commercy presso il Granduca di Toscana Francesco Stefano di Lorena nella prima metà del XVIII secolo, quando il quadro Mattei si trovava ancora a Roma, inventariato nel palazzo almeno fino alla successione del duca Giuseppe Mattei. Solo alcuni dipinti del Tesoro degli Asburgo Lorena trasferiti da Commercy e da altre residenze imperiali rimasero ad arricchire stabilmente le sedi della galleria fiorentina, mentre, con altri quadri che ne avevano fatto parte, il Manfredi, ritrovato sul mercato viennese negli anni duemila, ritornò alle raccolte mitteleuropee alla fine del Settecento, insieme a dipinti già appartenuti alle collezioni medicee, tra cui specialmente alcune tele in doppio di Manfredi, che già nel secolo scorso erano state rintracciate in disparati musei oltralpe: le copie antiche o repliche da lui stesso eseguite, che avevano dato consistenza al profilo critico della ‘manfrediana manier', o 'methodus’ nella traduzione di Christian Rodhius dell'Academia Todesca, enunciata da Joachim von Sandrart, o della ‘tranche de vie’, e che il Granduca di Toscana gli aveva acquistato in gran numero quando il pittore era vivente, compresa l’Incredulità di S. Tommaso tuttora agli Uffizi, quasi identica al dipinto di Potsdam, com’era stato testimoniato nella biografia di Manfredi delle Considerazioni e dalla corrispondenza di Giulio Mancini con il fratello Deifobo del 1618.
La Nota delli musei aveva reso celebre e diffuso il nome di Michelangelo Merisi, oggi riconosciuto milanese di nascita, con il toponimo di “Michele da Caravaggio.” Francesco Inghirami nel 1828 avrà menzionato “dal Caravaggio” la Presa o Cattura di Cristo che era giunta autografo caravaggesco alla collezione dei Lorena, a Palazzo Vecchio, e a Palazzo Pitti (fig.4) e annotata anonima nel 1802 dall’Inventario della Real Corte, o ‘Guardaroba medicea’, nella Sala del Reni della Galleria Palatina.
Fig.8 - Caravaggio, Decollazione di S. Giovanni Battista, particolare (Concattedrale di San Giovanni Battista, La Valletta, Malta)
Naturalmente non è solo con la ‘lectio’ della Presa di Cristo nell’orto Bigetti (fig.1) che il libro di Sergio Rossi ‘Caravaggio allo specchio tra salvezza e dannazione’ invita a fare opinione, sono anzi numerose le tele che troverete commentate tra le sue pagine con qualche evidenza di esclusiva fotografica, come il San Francesco ex-Cecconi e l’Ecce Homo apparso in asta a Madrid nel 2021, idealmente intesi come altrettanti campioni dello spirito francescano abbracciato dal pittore. Ed è proprio dal confronto con il volto di soldato, in cui Caravaggio si è ritratto, Malco, che sorregge la lanterna della Presa di Cristo, che Rossi avanza anche nella Decollazione del Battista dell’Oratorio della Concattedrale di San Giovanni Battista di La Valletta a Malta, nel condannato con la benda bianca che s’intravvede tra le grate della prigione (fg.8 ), un altro autoritratto di Caravaggio nel 1608: questa volta firmato con il rosso del sangue del Battista: ‘F.[rà] Michelangelo’, confermando come il pittore abbia voluto autoritrarsi, testimone oculare in disparte, quasi in ogni scena corale della storia cristiana che abbia rappresentato.
Copia qui lo "short link" a questo articolo
www.archeomatica.it/{sh404sef_shurl}